A quei tempi, eravamo davvero dei ragazzacci, ma era tanto, tanto tempo fa! Eravamo liberi, e le nostre giornate erano lunghe ed avventurose. Sì, è vero, la mattina andavamo anche a scuola, ma il pomeriggio era tutto un programma. Pochi compiti e tanto pallone sugli spalti delle mura. Innumerevoli, piccole e dispettose guerre fra bande rionali, epici scontri fra il mio rione, quello di San Paolino, e il rione di Cittadella, e poi, fra tante cose, oltre a divertirci in giro per i quartieri suonando i campanelli, facevamo spesso delle rapide escursioni lungo le sponde dell’amato fiume Serchio. Ci andavamo per annusare l’aria, per gustare l’odore della borraccina ancora umida e della muffa degli alberi, o comunque per fiutare gli aromi inconfondibili della vegetazione presente. Ci piaceva ascoltare il rumore palpitante dell’acqua che scorreva veloce lungo le sponde del fiume e, nelle belle giornate estive, ci garbava tantissimo tuffarci nelle acque limpide e torrentizie del Serchio, l’antico Auser, popolate da un fottio di pesci quali: barbi, cavedani, carpe e anche anguille. A proposito di anguille, quando avevamo in tasca qualche palanca, cioè quasi mai, le anguille le andavamo a mangiare fritte dal “Monchino”, che aveva una piccola baracca ai margini della stradina sterrata vicino al fiume, al riparo sotto ai pioppi. Ricordo che il Monchino, a cui mancava mezzo braccio, ogni volta che portava al tavolo il cartoccio con le anguille, aveva il brutto vizio di scaracchiare per terra…e a volte, alcuni di noi, i più delicati di stomaco aoncavano, ossia avevano dei forti eccitamenti al vomito, mentre invece gli altri, che in teoria avevano l’apparato digerente più forte, nel vedere quest’ultimi…vomitavano per davvero! Ma tornando ai tuffi, facevamo il bagno e delle lunghe e salutari nuotate, in località Piana del Nozzi, fra i pontoni galleggianti sul fiume, naturalmente incuranti dei pericoli e delle raccomandazioni dei nostri genitori. Ma poi, diciamo pure la verità, ci andavamo soprattutto per abbattere o per cercare di abbattere con le nostre filombre artigianali, quei poveri uccellini che, per caso o per disgrazia, passavano di lì, e che stremati trovavano riposo sui rami degli alberi. Ma non disdegnavamo neppure di cacciare alcune sventurate ciortellore, ricercatissime quelle con la doppia coda. Pochissimi esemplari la possedevano, perché la loro coda si rigenerava solo dopo la perdita, spesso in combattimento, della loro originaria e semplice coda. Doppia coda che era sinonimo di fortuna sfacciata, non certo per la lucertola, ma per chi riusciva a catturarne almeno una viva o morta e con quelle caratteristiche. A volte addirittura, se eravamo particolarmente fortunati, alla fine della caccia, potevamo esporre come trofeo anche uno iellatissimo, quanto schifosissimo e lungo biacco. Eravamo proprio degli stronzi a prendercela con gli animali, e me ne sono pentito amaramente, ma all’epoca i ragazzi, erano più o meno tutti così incoscienti, ed anche noi non ci rendevamo assolutamente conto del male che facevamo a quei poveri animaletti ed anche a noi stessi. Grosso modo, comunque, erano quelli che vi ho descritto, i luoghi e le zone che, con più frequenza, bazzicavamo nella nostra adolescenza. Adesso, non vi sto a dire più di tanto, e non voglio certamente entrare nei minimi particolari ma, a quei tempi noi, i componenti di quella piccola gang, oltre a prendercela con quei piccoli esseri viventi, ne combinavamo di cotte e di crude. Qualche volta tornavamo a casa con il naso rotto, con numerosi lividi, con apprezzabili escoriazioni e tremende sbucciature, insomma con varie ferite, naturalmente in ogni parte del corpo. Una volta anch’io, oltre a portarmi a casa un bel trincio sopra al sopracciglio sinistro, causato da una “involontaria” sassata del “mio migliore amico”, ovvero della buonanima di Pier Giorgio il Bianchi, il quale mi provocò una ferita di tre punti di sutura, ne buscai addirittura anche da mia madre, sconvolta nel vedermi arrivare a casa in quello stato! E dopo tanti anni, porto ancora con me quella bella cicatrice… ovvero quella che mi lasciò mia madre colpendomi con una spettacolare padellata sulla tempia destra. Quella tremenda botta mi costò ben sei punti di sutura, rigorosamente manuale, con l’ago ed il filo che penetravano in modo tipicamente sartoriale nel tessuto lesionato per cucire la mia ferita a regola d’arte! Un giorno, mentre uno sparuto ma scelto gruppo di arditi, di cui facevo parte, stava scorazzando fra le pioppete lungo la golena del Serchio in cerca di non si sa che cosa, il più grande e grosso di noi, ma anche il più stronzo del gruppo che si chiamava Martino, ci disse, quasi come fosse un profeta, che un giorno, in quello stesso luogo, dove noi tutti ci trovavamo in quel preciso momento, avrebbero costruito un ponte! Dopo quella sua affermazione, tutti quanti ci mettemmo a ridere a crepapelle. Il primo però che si beccò un bel pugno in faccia, fui proprio io! Poi, a ruota, seguirono gli altri! E’ no! Con Martino non si poteva proprio scherzare! In sangue mi usciva copioso da una narice. Mi asciugai alla bell’è meglio col fazzoletto. Per fortuna l’emorragia si bloccò. Cercai di restare immobile, ma mi era molto difficile, considerando il fatto che stavo tremando come una foglia, che sentivo un gran dolore al naso, e che stavo quasi per svenire. Ma per buona sorte mi ripresi alla grande, e fu allora che decisi di giocare d’astuzia. “Ok Martino!”- gli dissi! “Può darsi che tu abbia ragione, ma se vuoi convincere me e tutti gli altri, che il ponte sarà davvero costruito per unire fra loro le due rive del fiume, dovrai superare la famosa “Prova di credibilità.” Nella nostra piccola banda di ragazzacci, per essere creduti in qualcosa che non risultata attendibile al resto del gruppo, bisognava cimentarsi in una disputa a tema, una cosa difficile da affrontare, in pratica una gara, un agone che, di volta in volta, era deciso dal resto del gruppo. Se il candidato riusciva a superare la prova battendo tutti gli altri, tutto ciò gli sarebbe valso da attestato ufficiale di sincerità assolutamente inconfutabile, con la conseguenza che la sua presunta sparata, sarebbe stata proclamata e consacrata da tutto il branco come verità assoluta. Guarda caso, decidemmo di indire una gara di aquiloni, e vi posso giurare che guidare con destrezza un aquilone, era il mio forte, la mia specialità! Il regolamento parlava chiaro e diceva che, se Martino, prima di noialtri, avesse fatto volare il suo aquilone talmente lontano, da far tendere il filo a cui era agganciato fino all’altra riva del fiume, ebbene, in quel caso lui, avrebbe superato ampiamente la prova di credibilità, e quel ponte sul fiume Serchio prima o poi sarebbe stato veramente costruito. Martino accettò la sfida! L’unica cosa importante per lui…ed anche per noi, era quella di esibire la propria abilità! Quel giorno il cielo era di un azzurro molto limpido, quasi metallico. Il sole era caldo, e udivamo soltanto il tedioso e monotono brusio delle mosche che si azzuffavano sopra i cumuli di sterco di pecora e di cavallo sparsi lungo la stradina sterrata che costeggiava il fiume. Il vento faceva volare molto in alto nell’aria i nostri variopinti aquiloni. La loro vista ci regalava un colpo d’occhio eccezionale. Per un po’, all’inizio, il mio aquilone si staccò dagli altri, ma poi, quella specie d’aborto, o meglio quella mezza sega di aquilone di proprietà di quella grande testa di cazzo di Martino, prese il sopravvento. Si distaccò velocemente da tutti gli altri, lasciandosi trasportare gratuitamente dal vento, ahimè, talmente lontano da arrivare a volare persino sulla riva opposta del Serchio. Martino, con quel suo satanico ghigno di merda, srotolò prontamente il filo, e così quel suo stramaledetto aquilone cominciò a scendere. Un ragazzo della nostra congrega, che fungeva da giudice, e che si era recato sulla riva opposta, riuscì ad afferrare il filo, tirando l’aquilone a terra. Martino, quel gran figlio di puttana, aveva così superato la prova di credibilità ed aveva vinto la gara. Ma il peggio è che, a distanza di tantissimi anni, quel ponte sul fiume Serchio è stato costruito per davvero. Sì, certo, lo so bene, deve essere ancora ultimato. Però, quel ponte, non è altro che la famosa passerella ciclopedonale che unirà le due rive del Serchio e che finalmente, dopo tanti anni, e diversi fallimenti delle varie società che dovevano costruirlo, forse, sembra, dicono, si sussurra, che sarà inaugurato verso la fine di questo nevoso febbraio. Proprio ieri sono andato sul fiume, lato Tirassegno Nazionale, e ho visto che effettivamente i lavori sono stati ripresi, e mi sembra anche che siano a buon punto. Forse ce la faranno davvero, se non alla fine febbraio, probabilmente agli ultimi di marzo. Quel ponte è stato costruito proprio nel punto dove, quel lontano giorno, quella banda di ragazzacci, di cui anch’io facevo parte, sfidò Martino nella famosa gara degli aquiloni. Indubbiamente Martino, sarà stato anche uno stronzo, non lo metto in dubbio, però i fatti, dopo tanto tempo gli hanno dato ragione! In quel luogo, in quello stesso punto del fiume, prima o poi avrebbero costruito per davvero un ponte! So, che Martino, come me, e come tanti altri della nostra vecchia cricca, è sempre vivo e vegeto. Ma, se per caso dovessi incontrarlo per strada, gli girerei parecchio alla larga! Dicono che, nonostante l’età, quel vecchio mastino possieda ancora un bel gancio… molto, ma molto difficile da schivare!
S T E L E
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