Il mio piccolo casolare. Racconto.

Vivevo in collina. Abitavo in un piccolo casolare dimenticato in mezzo al bosco. Io stesso, con le mie sole mani, senza l’aiuto di nessuno, l’avevo ricostruito pietra su pietra dalle macerie, con tanto impegno, fatica, pazienza e amore. Soltanto Dio sapeva quanti anni, mesi, giorni ed ore di lavoro avevo impiegato per tirarlo su. Il mio piccolo casolare in pietra, era contornato da ampi spazi verdi, da prati fitti d’erba agreste, da selve di castagni e da un coacervo di acacie, faggi, abeti, rovi, felci, lamponi e mirtilli che, vi giuro, mi facevano stare bene ogni volta che li guardavo. Facevo il boscaiolo. Lavoravo a stretto contatto con la natura. La mia abitazione era situata a circa tre di chilometri da un piccolo paese, il più alto della zona. Quella notte sentivo la pioggia tamburellare sulle tegole del tetto, picchiare con insistenza sui vetri delle finestre e scrosciare rumorosamente dentro le grondaie. I lampi, ogni volta, prima di morire, dissipavano per un attimo il buio notturno, ed i tuoni, subito dopo, schioccavano nell’aria come frustate. Quando la mattina dopo mi alzai, i primi raggi del sole erano già penetrati nelle stanze, la pioggia era finalmente cessata e nel cielo non c’era nemmeno più l’ombra di una nuvola. Mi recai in cucina, accesi il fuoco nel camino, mi sedetti accanto al focolare e pensieroso osservai le fiamme che illuminavano il mio viso rude, segnato dall’età, dalla fatica e dal dolore. Fuori il sole rifulgeva come il primo giorno della creazione, quando nostro Signore separò la luce dalle tenebre, chiamando la luce giorno e le tenebre notte. Purtroppo, proprio in quel momento, pensai a loro che stavano per arrivare, e se ancora non li vedevo, in cuor mio sentivo che venivano proprio da me, che stavano attraversando il bosco, che stavano risalendo quel lungo sentiero irto di tornanti che, prima o poi, li avrebbe condotti dritti filati fino alla porta della mia umile dimora, del mio piccolo casolare, l’unica cosa che, dopo una vita di lavoro, di sudore e stenti, mi apparteneva, la sola mia ricchezza! Non avevo altro, e loro me lo volevano sequestrare, addirittura forse anche abbattere! Dicevano che era abusivo, che non ero il suo legittimo proprietario e che dovevo sloggiare subito, dovevo andarmene, dovevo abbandonarlo immediatamente! Io che l’avevo tirato su dal nulla! Io che l’avevo riportato in vita dopo tanti anni, dopo che era stato distrutto dall’abbandono, dall’incuria e dalle intemperie! Avevo la bocca secca, arida, ero nervoso, ero teso e impaurito. La mia mente adesso era offuscata da una moltitudine di pensieri. Cosa avrei mai potuto fare senza la mia casa? Come sarei vissuto senza un tetto sotto cui ripararmi? Come avrei potuto resistere ad un tale affronto! Annaspavo in un vortice che mi stava risucchiando in un mondo diverso, senza prepotenze, privo di menzogne e di espedienti, di abusi e di brutalità. In un mondo dove speravo regnasse soltanto la felicità. Ma intanto, sempre di più, nella mia mente s’insinuava il tarlo del suicidio. Sentii bussare alla porta. Sbirciai dalla finestra. Erano loro. Erano in quattro. Due carabinieri, l’ufficiale giudiziario ed il presunto proprietario del casolare dimenticato e distrutto, che io con tanta cura e diligenza avevo ricostruito dalle rovine. In quel momento avvertii dentro di me un qualcosa di gravoso e di angosciante, come una forza invisibile, bieca e mostruosa che, con una ferocia illimitata, e senza ch’io potessi fare nulla per fermarla, stava uscendo con prepotenza fuori dal mio corpo per avventarsi crudelmente contro quei poveri quattro cristiani. Improvvisamente e senza alcuna spiegazione logica, la porta di casa si spalancò da sola verso l’interno, rinculando immediatamente all’esterno con una forza tale ed una violenza inaudita da scardinarsi completamente, piombando e schiantandosi fragorosamente sui corpi ignari dei quattro visitatori, che vennero orrendamente maciullati e scaraventati in alto, lontano, su nell’aria, come fossero dei fuscelli. Quella misteriosa, incredibile ed invisibile furia, quella presenza informe, che a mia insaputa, si annidava dentro di me, era dunque uscita allo scoperto dal suo covo, e lo aveva fatto solo per difendermi e nel momento più opportuno, dopodiché, compiuta la strage, era rientrata docilmente nel mio corpo, quello che per lei era la sua tana! Nel frattempo, dopo una mia fugace uscita per dare un’occhiata all’esterno, ero rientrato anch’io nel mio rifugio, nel mio piccolo casolare. Non sarei restato nemmeno un minuto di più all’aperto. Era troppo forte fuori l’odore della morte! Contemporaneamente, come per magia, anche se con un lievissimo cigolio, la pesante porta di legno dell’ingresso, incredibilmente integra, girava nuovamente sui propri cardini, richiudendosi delicatamente dietro di me. Il tempo passava davvero in fretta. Erano già le diciassette e le ombre, fuori dal casolare, ad ogni minimo istante si dilatavano e si contraevano sempre di più. Oramai quella breve e intensa giornata d’inverno stava piano piano svanendo. Alle ventuno, la luna brillava in un cielo ammantato di stelle, mentre un uomo dal volto fiero e tormentato e dagli occhi spalancati, luminosi e truci, dondolava ad una delle travi del soffitto, con una grossa corda appesa al collo. Quell’uomo ero io, dentro al suo piccolo casolare sperduto in mezzo al bosco. Riuscivo stranamente ad osservarmi dall’alto, come fossi uscito dal mio corpo, proprio nel momento in cui, con gli occhi rovesciati all’indietro, la bocca spalancata e la lingua penzoloni, stavo oscillando lentamente sotto a quella maledetta longarina, passando, in poche frazioni di secondo e fra atroci dolori, dalla vita alla morte, mentre fuori, nel momento fatale del trapasso, l’oscurità improvvisamente si era fatta silenziosa, come se d’un tratto il bosco avesse trattenuto il respiro per una forma di rispetto nei miei confronti.

S T E L E







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