La volontaria morte di una bella donna. Racconto.

Il suo era un pallido lucore, annebbiato soltanto dal proprio edonismo totalmente fuori luogo. Era come una mosca in cerca di miele, e non mi facevano affatto paura le sue ultime licenziose e teologiche battute su di me. Corridoi tappezzati di arazzi e una girandola di grida paurose quanto sterili. Livido e purulento era ormai il suo fisico, quasi un tumore nell’immondizia della vanità e spelacchiato era il suo vello pubico, che un dì fu il vanto dei teneri sentieri del suo corpo. Erano questi i prolegomeni di una morte annunziata. Un grattacielo disabitato e vergognose baracche, la sua brumosa presenza, i suoi occhi di piombo in una purissima profondità, la sua lenta e gravosa agonia, la sua goffaggine che cerca di sopravvivere al triste evento. L’autocontemplazione di un cervello sano in un corpo malato, in una farfalla funebre, in uno scheletro vizzo e spoglio che attende solo la parola fine, la purificazione di una vita fittizia e vana. Pozzanghere di cielo in un mondo egemonico e rumoroso. Allegri cinguettii ed improvvise astrazioni, muscoli odorosi e strane allegrie. Giacinti d’acqua e ghirlande trascinate da fiumi in piena. Exabrupto, senza preamboli, al suono di cembali e di flauti, il suo placido suicidio nell’indifferenza più totale e assurda di quella cerchia di uomini senza alcuna pietà e di quelle odiose donne geisha dai furori uterini. La sua candida salma su pietre nere e tronchi, il suo corpo arso. La sua anima che fra poco salirà sugli sdruciti gradini fin sulle nuvole del pertinace Dio della misericordia.

Caio Tullio Marone

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