Spiacente, ma questo green pass è scaduto da 400 anni. Anche se non sembra. Come sembrano di oggi gli stati d’animo, le paure, le speranze e i provvedimenti che dominavano a Milano durante la peste del 1600. Peste negata, subita, combattuta, sfidata. E raccontata da un cronista speciale: Giuseppe Ripamonti.
Le vicende dell’epidemia nella Milano del 1600 raccontate da Ripamonti — prima ancora che storico cronista attento e di una dinamicità e preveggenza illuminate — lanciano la città di allora nell’oggi. Oppure, rileggendo ora i testi della prima traduzione integrale italiana delDe peste(La peste di Milano nel 1630, Luni editrice), fanno scivolare noi contemporanei quattro secoli addietro. Insomma la pandemia nella quale ci dibattiamo sembra che nulla abbia da aggiungere o da sottrarre, ma molto da condividere, con l’infezione che piegò Milano nel 1629-1630. E pure Manzoni trovò nell’opera di Ripamonti, studiata e analizzata, innumerevoli informazioni per i suoi Promessi Sposi nonché la cognizione della lotta tra bene e male e la vocazione a interpretare l’esistenza.
PUBBLICITÀ
E ora tocca a noi. Tra i «numerosissimi e rovinosi elementi da cui la peste trasse giovamento per crescere e rafforzarsi — scrive il cronista del ’600— io sono propenso a credere che nessuno fu più importante e rovinoso del fatto che la gente non voleva credere che si trattasse di peste e scherniva con fischi, insulti e risate quanti pronunciavano quella parola». Nonché gli attacchi al principe del medici, Ludovico Settala, del quale si strillava che fosse il capo di quanti denunciavano la malattia e che «dalla sua barba e dalla sua aria cupa la cittadinanza era indotta al terrore».
Un terrore aumentato dopo che il cardinale Federico Borromeo acconsentì a indire un’enorme processione con le spoglie del cugino San Carlo, con il risultato di un inaudito affollamento delle strade e un incrementare incontrollato del contagio. Tra le dicerie invece l’alloggio in città — ed era pure noto il nome del proprietario — affittato dal diavolo per diffondere e far diffondere la malattia. Poi processi e torture inflitte agli untori, la cronaca delle indagini alla ricerca di unguenti contagiosi. Ma anche i cadaveri lungo le strade, l’opera dei monatti, i lutti e le paure.
Infine scienza, Provvidenza e prevenzione ebbero la meglio sulla malattia e il Ripamonti passa a elencare gli atti del Pubblico Consiglio e della Municipalità annotati scrupolosamente «perché potessero valere in futuro come un manuale su come si scaccia il contagio». Guarda caso: cancelli, chiusure degli accessi cittadini, lasciapassare per chi arrivava da aree immuni. I «green pass» di oggi. Poi approntamento di letti e luoghi dove ricoverare gli ammalati, appello ai medici perché portassero aiuto, monete d’oro prese dall’erario e distribuite in varie tranche ai bisognosi, aiuti a chi perse il lavoro, generalmente garantito a giornata dai commercianti, diminuzione del carico fiscale.
E ancora l’iniziativa del Pubblico Consiglio che mandò due delegati — Visconti Giovanni Battista, figlio di Coriolano, e il cavaliere Carlo — perché riferissero al governatore «che la cittadinanza non dubitava che egli dovesse partecipare all’erogazione di denaro e all’onere di nutrire quasi l’intera popolazione. Non dubitava neppure del fatto che simili spese fossero pertinenza dell’onore e maestà del re». Come in altri periodi di peste l’imperatore Carlo aveva per decreto imposto esborsi ai Duchi di Milano. Chi avrebbe immaginato che tali atti sarebbero un giorno diventati «Recovery plan» e «Dpcm» con protagonisti chiamati Regioni e governo? E per finire, ripercorrendo i provvedimenti per bloccare il contagio, l’obbligo di «chiudere le case, che tutti dovevano chiudersi dentro», la proibizione del vagare all’aperto e la chiusura «di tutte le botteghe» tranne quelle del commercio di alimentari. Per chi si fosse distratto correva l’anno 1630 .
|