Il lucchese Giovanni Tommaso, leggenda del jazz italiano

La biografia di Giovanni Tommaso, leggenda del jazz italiano: 'Ho suonato con i più grandi'
di Ernesto Assante

L'ex leader del Perigeo, in occasione dei suoi 80 anni, racconta la sua storia in 'Abbiamo tutti un blues da piangere': 'Nella musica conta l'emozione'

05 GIUGNO 2021 REPUBBLICA. IT


Leggenda. La prima cosa che viene in mente scorrendo le pagine di Abbiamo tutti un blues da piangere, libro autobiografico di Giovanni Tommaso, uno dei più grandi e importanti musicisti italiani, compositore, bandleader, star con il Perigeo, solista di fama internazionale, è che la sua vita sia pura leggenda. Ma, in realtà, si tratta di Storia. Storia del jazz, storia della musica e della cultura italiana, una storia che non è mai stata raccontata in questa maniera, perché Tommaso l’ha vissuta in prima persona e l’ha voluta riportare in un libro. Quindi, mettendo insieme storia e leggenda si ricava un grande romanzo, una bellissima avventura, un affresco bello, completo e colorato, al centro del quale c’è la vita di Giovanni Tommaso e, soprattutto, la musica. Ottant’anni vissuti con la musica, nella musica, per la musica, che il musicista ripercorre con la stessa passione che ha messo nel suonarla. Passione nata “quando l’insegnante di pianoforte che veniva a casa nostra una volta alla settimana per darci lezioni di musica, decise di suonare una parte della Blue Rhapsody di Gershwin”, ci racconta, “Vedere a un palmo di naso le sue mani che volavano sulla tastiera fu una vera folgorazione. Però la passione scattò un po' dopo, quando dal piano passai al contrabbasso. Le note gravi del mio strumento vibravano sul mio corpo quasi come se fosse un’altra cassa armonica. Durante il mio primo concerto con mio fratello Vito e I ragazzi del Quintetto di Lucca, mi sembrò di leggere negli occhi delle ragazze uno strano stupore nell’ascoltare dal vivo quel suono così inusuale. Ricordo bene, fu quello il momento in cui decisi che avrei fatto il musicista”.

Oggi potrebbe dire di pensare alla musica allo stesso modo?

“Per certi versi sì. Ho sempre pensato che un concerto di musica jazz vada preparato con serietà, soprattutto quando ne sei il leader, ma nello stesso tempo ho bisogno di presentarmi davanti al pubblico con “una percentuale di rischio”, come la chiamo io. Questo approccio, nel caso la musica risulti abbastanza buona, mi gratifica moltissimo e a quel punto gli eventuali errori di esecuzione li ritengo marginali. E’ anche possible che questo atteggiamento mi risulti utile per scongiurare un eventuale pericolo di “rutinaggio” che credo non faccia bene al jazz. Grazie a questa domanda, mi viene in mente che forse tutto ciò mi riconduce a quando ero alle prime armi, quasi come se avessi magicamente conservato la freschezza dei miei primi passi, anche se so bene che può solo trattarsi di autosuggestione”.

Quali sono state le esperienze che oggi considera importanti?

“Posso dire che quasi tutte mi hanno insegnato qualcosa. Le prove maniacali col Quartetto di Lucca (mi pesavano un pò, ma mi sono servite), il Perigeo, i lunghi mesi trascorsi a New York nel 1959/60, nei giorni in cui non suonavo nelle crociere che facevano rotta nei Caraibi, potevo ascoltare dal vivo i grandi del jazz americano e soprattutto ho avuto la fortuna di suonare con alcuni di loro e anche registrare dei dischi. Naturalmente senza dimenticare alcuni illustri colleghi italiani. Ecco queste esperienze sono state la mia vera scuola, ognuno di loro mi ha mostrato aspetti diversi e tutti mi hanno lasciato insegnamenti che hanno contribuito alla mia crescita: la ricerca del proprio sound, lo specchio dell’anima, la vera identità del jazzista, quella che ti rende riconoscibile dopo solo tre note. Basti pensare a Armstrong, Holiday, Parker, Konitz, Davis, Baker, Evans e tanti altri'.


E invece quali sono state quelle più strane, particolari?

“Strane? Mi viene in mente quando durante il “settembre lucchese” c’era la fiera con i banchi per strada, in particolare a Borgo Giannotti, dove sono nato e ho vissuto i miei primi 18 anni. La fiera era una grande opportunità per vendere qualsiasi cosa, anche animali, cavalli, bestiame, uccelli e quantaltro. C’era anche un cantastorie che vendeva pubblicazioni a fumetti disegnati da lui stesso. Sotto il profilo strettamente musicale era una formula antesignana di hip hop con l’uso di testi prevalentemente di storie d’amore e tradimenti ma occasionalmente anche di carattere sociale. La parte iniziale, quella che introduceva i personaggi, era una cellula tematica reiterativa, la trama principale invece era un pò più melodica. Quello che mi intrigava molto era la facilità con cui il cantore manipolava la voce facendo uso di sofisticati gorgheggi. Non vorrei esagerare ma c’erano degli elementi riconducibili alle forme arcaiche del blues. Sì, la musica “povera” mi ha sempre attratto. Ricordo che durante le crociere, quando facevamo scalo nelle isole, spesso mi capitava di ascoltare delle formazioni inedite molto interessanti ritmicamente e timbricamente, come per esempio le steel band di Trinidad, le piccole formazioni di calypso in Giamaica, e quelle di latin music di San Juan de Puertorico. Insomma c’è sempre da imparare qualcosa, basta essere curiosi e tenere aperte le orecchie”.

Com’era essere una rockstar ai tempi del Perigeo?

“Eccitante. Mi sentivo un artista molto creativo sia artisticamente che tecnologicamente. Molte delle novità timbriche che usavamo per personalizzare il sound del Perigeo erano frutto di esperimenti. Con l’aiuto di un tecnico arrivai perfino a costruire un sintetizzatore. Mi sembrava di essere al centro del mondo anche perché la popolarità era molto cresciuta, a volte mi riconosceva anche il casellante dell’autostrada. Il successo ottenuto nelle 2 settimane al Ronnie Scott's di Londra, il tour europeo con i Weather Report e il disco che incidemmo a Toronto per la RCA americana ci proiettarono in una dimensione internazionale inaspettata. Furono 5 anni intensi e ora che sono trascorsi ben 44 anni da quando sciolsi il gruppo, il fatto di continuare a vendere i nostri dischi in tutto il mondo mi riempie di orgoglio, è il riconoscimento che abbiamo lasciato un segno indelebile”.

Tecnica o emozione? Cosa ha contato di più?

“Di sicuro l’emozione. Nel jazz un pò di tecnica è indispensabile, mi riferisco non tanto alla tecnica virtuosistica quanto a quella della padronanza del proprio strumento che ti permette di comunicare tutta l’espressività di cui hai bisogno. Avevo 19 anni quando tornai in Italia, il soggiorno a New York mi aveva trasformato. Avevo appreso il linguaggio del jazz moderno e come scrisse un critico francese, ero considerato in Europa un enfant prodige. Si, avevo la tecnica che mi permetteva di suonare nel modo in cui mi piaceva, ma la definizione di enfant prodige non mi si confaceva, infatti la girai dopo poco tempo allo stepitoso bassista danese Niels Pedersen, probabilmente il più virtuoso dei contrabbassisti”.

Jazz, pop, rock…le etichette contano?

“Non ho niente contro le etichette. In un certo senso servono da guida all’ascolto e comunque il giudizio finale viene appunto ascoltando la musica. Nel tempo le etichette, intese come barriere invalicabili, stanno sparendo e tutto viene rimandato all’ascoltatore e al suo semplicistico 'piace o non piace'. A volte anche gli stessi artisti sentono il bisogno di rompere certi schemi, mi viene in mente la grande Carla Fracci che portava la sua arte dove nessuno prima aveva assistito a uno spettacolo di danza classica. In quanto alla specifica valutazione dei vari stili musicali citati nella domanda, sarebbe interessante girarla a molti dei miei colleghi jazzisti, che ahimè, sono i primi a fare discriminazioni stilistiche: infatti solo pochi asseriscono che anche una canzone può essere un’opera d’arte. Ma qui entriamo in un territorio paludoso”.

Gli incontri più belli?

“Aver conosciuto John Coltrane e sua moglie Naima. Mi ritrovai seduto accanto a loro parlando della musica italiana. Conobbi anche gli altri del suo quartetto stellare. In particolare ricordo McCoy Tyner che cercò di farmi capire i grandi valori spirituali del Buddismo. In onore di Trane mi trovai coinvolto a suonare una performance improvvisata insieme a Gato Barbieri, appena conosciuto. Suscitò un certo stupore perché allora suonava proprio 'alla Coltrane'. E poi chi l’avrebbe detto che anni dopo avrei suonato con il travolgente batterista Elvin Jones, fu un’esperienza molto intensa. Ricordo con molto piacere anche Max Roach, il più prestigioso batterista bop. Era uomo e batterista di grande classe. Anni prima di suonare un concerto con lui e sua moglie Abbey Lincoln, l’avevo conosciuto in un club a New York, gli portai in regalo un numero della rivista Musica Jazz con la sua foto in copertina. Prima dell’inizio del suo secondo set mi presentò e chiese al pubblico di applaudire me e i ragazzi del Quintetto di Lucca, che emozione! Ne avrei diverse di storie legate a personaggi per me leggendari, uno per tutti, Frank Sinatra, idolo della mia adolescenza, quando mi chiese di cedergli 3 ore dell’United Western studio di Hollywood, dove stavo facendo il missaggio di un mio disco”.

Chi è Giovanni Tommaso oggi?

“Aiuto! Credo di essere uno dei tanti che non credeva avrebbe compiuto 80 anni! Perché? Forse per la vita movimentata che ho vissuto, i diversi progetti musicali che hanno richiesto tanta energia, i miei sconvoglimenti esistenziali, le mangiate e le abbondanti bevute del dopo concerto, i vari traslochi, il più assurdo fu il ritorno a Mentana, dove tuttora abito, quando un enorme container scaricò il contenuto della nostra casa di Dana Point, splendida cittadina sul mare dell’Orange County in California, dove avevamo vissuto tra il 2001 e il 2006. Comunque grazie a Dio ci sono e continuo a fare progetti per il futuro, nella speranza che la mia tendinite ai polsi, da cronica non diventi incurabile”.

Com’è stato raccontare tutto e scrivere un libro?

“Scrivere il libro è stata una piccola epopea. Iniziai a buttare giù qualche appunto il giorno in cui festeggiai 50 anni. Successivamente, se pure con lunghi periodi di intervallo, ho continuato a scrivere con grande lentezza, anche perché ogni volta ricominciavo a leggere tutto da capo. L’amico Ashley Kahn (ha scritto anche l’ottimo libro Kind of Blue), mi disse proprio di non commettere l’errore di rileggere sempre tutto da capo. Purtroppo non l’ho ascoltato. Se non fosse stato per il tanto temuto lockdown non credo sarei mai stato capace di portarlo a termine, invece l’inattività concertistica se non altro mi ha regalato molto tempo a disposizione e così ho deciso di tirare dritto e dopo qualche mese sono riuscito a finirlo. Certo, ricordo che quando stavo scrivendo la prima parte del mio libro, la mia infanzia, la guerra, il dopoguerra ed altro, sono andato in crisi profonda perché pieno di dubbi a chi avrebbe interessato leggere quelle storie. Fortunatamente la svolta è stata di una semplicità sorprendente per me, ossia, mi sono detto “a me interessa”. Infatti mentre scrivevo avevo la netta impressione di rivivere i miei ricordi”.


Estratto da www.lavocedilucca.it/post.asp?id=89690
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